27/05/11

Cultura "giudaico-cristiana": un inganno interpretativo


La Chiesa cattolica vive - dopo il Concilio Vaticano II - un periodo di dialogo con gli ebrei (…) Oggi, trentacinque anni dopo il Concilio, una certa ideologia "ebraico-cristiana" si è istaurata poco a poco come fondamento dell'incontro ebraico-cristiano” (1).


E’ sottilmente critico, nei riguardi dell’uso della locuzione “giudaico-cristiana”, il gesuita israeliano David Neuhaus e una “certa ideologia ebraico-cristiana” è già un elemento che fa pensare, proprio per i termini utilizzati che non possiamo trascurare. 

Nel suo testo specifica “Il fatto che ci siano oggi degli ebrei e dei cristiani che parlano di una “eredità comune” è parzialmente l'effetto dell'Illuminismo e dell'emancipazione degli Ebrei nell'Europa occidentale. L'emancipazione ha condotto all'assimilazione (la dissoluzione dell'identità ebraica) di molti ebrei che hanno desiderato entrare completamente nella società europea. Alcuni si sono convertiti al cristianesimo per “portare a compimento” questa assimilazione”.
 
In particolare “Tra il XVIII e il XX secolo, si è avuta l'impressione che gli ebrei e i cristiani europei in Europa occidentale creassero insieme una cultura comune – una cultura 'giudaico–cristiana'. Lo sviluppo della filosofia dell'Illuminismo ha condotto alla formazione di un discorso ermeneutico degli intellettuali ebrei e cristiani che rendeva conto della parentela del testo (l'Antico Testamento perlomeno) e da lì ne cambiava la lettura tradizionale. La nuova lettura (e l'annullamento delle differenze tra la lettura ebraica e cristiana che ne consegue) è strettamente legata all'entrata degli ebrei nella società europea”. E ancora “In fondo non è il testo che è comune agli ebrei e ai cristiani, ma la loro esperienza culturale in Europa” e citando un teologo belga (2), ricorda “Soltanto, in effetti, un'esperienza comune può condurre ad un'interpretazione ermeneutica comune”.
 
Detto in altri termini sembra qui indicata una interpretazione dell’ebraismo alla luce del razionalismo del XIX e XX secolo, da parte di intellettuali che “che leggono l'ebraismo in armonia con la filosofia e la cultura europee”. Cioè seguendo i dettami dell’Illuminismo (3).
 
E’ nel corso del processo di assimilazione, confortato dall’impostazione razionale che si proponeva di superare l’irrazionalità del pensiero religioso, con l’apertura dei ghetti europei, che si forma quell’ideologia giudaico-cristiana che è ideologia interpretativa, non disvelamento di una reale uguaglianza.
 
Ma è evidente che il percorso iniziale della logica che vedeva illuministicamente, razionalmente una ‘prossimità’ fra ebrei e cristiani, doveva frangersi contro l’onda montante dell’antisemitismo europeo, radicato nel plurisecolare antigiudaismo cristiano, ma da esso poi resosi autonomo ed ancora più brutale. Fino allo sterminio nazista.
 
Dopo Auschwitz gli intellettuali ebrei hanno preso le distanze da questa concezione della “cultura ebraico-cristiana” che minimizza le differenze essenziali tra l'ebraismo e il cristianesimo. Il fumo dei crematori ha oscurato l'ottimismo del “comune”. Così dobbiamo riconsiderare questa tradizione “ebraico-cristiana” - essendo stata la parte ebraica troppo ridotta ad una lettura culturalmente cristiana”.
 
Sarà proprio il senso di colpa della Chiesa riguardo all’antisemitismo millenario, radicalizzatosi così drammaticamente nelle camere a gas, che porterà alla Nostra Aetate, cioè alla dichiarazione del Concilio Ecumenico Vaticano II sulle relazioni con le religioni non cristiane che darà nuovo avvio a quell’ideologia interpretativa che viene chiamata “cultura giudaico-cristiana”.
 
Tuttavia - osserva di nuovo il Neuhaus - questo discorso contemporaneo ignora quasi del tutto gli elementi che distinguono l'ebreo dai suoi vicini cristiani”.
 
Mi fermerei qui: l’ipotizzata, spesso sovracitata, tendenza culturale “giudaico-cristiana” non sembra essere altro che un’ideologia interpretativa di origini razionalistiche che afferma una sorta di identificazione fra ebrei e cristiani a partire dalla minimizzazione o, se vogliamo essere più categorici, dall’annullamento delle differenze. 

Il dialogo ebraico-cristiano non è un dialogo fra diversi per uno scambio culturale o finalizzato ad una reciproca comprensione, ma è, banalmente, un processo di annullamento delle diversità che implicitamente presuppone un monologo, non un dialogo. Dove la parte ebraica viene ridotta, con la complicità dell’intellighenzia ebraica evidentemente troppo assimilata per accorgersi dell’inganno, “ad una lettura culturalmente cristiana”.
 
Se si chiudono gli occhi sulle differenze, non sembri strano se poi si scoprono le uguaglianze.
Solo che non si è scoperto niente, semplicemente si è fatto buio su tutto. Come si dice, di notte tutte le vacche sono nere. 

In "Falsi gemelli" ho cercato invece di scoprire le differenze. Che non mi sembrano trascurabili.


maggio 2011

Note

1) D. Neuhaus, L'ideologia ebraico-cristiana e il dialogo ebrei-cristiani. Storia e teologia.
http://www.gliscritti.it/approf/neuhaus/ideo_e_c.htm
2) E. Schillebeeckx, L'histoire des hommes, récit de Dieu, 1992, p.252.
3) Cosa che, ci avverte l’autore, non è mai avvenuta nel mondo islamico. Infatti: “La difficoltà maggiore nel dialogo islamo-cristiano in Occidente è l'assenza di una cultura comune e non la mancanza di un testo comune”.


 

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