19/12/11

Il popolo eletto e il "vero Israele"


Una della accuse più cocenti - anche per la plurimillenaria storia di persecuzioni subìte - che gli ebrei si sono sempre sentiti rivolgere è quella di essere sostanzialmente dei razzisti. Che il popolo ebraico si sia a lungo identificato con la religione ebraica e che essa sia proprio ed esclusivo credo di quel preciso popolo, è opinione comune. E può essere datata, ma non è, evidentemente, sbagliata.
 
Dal momento che chi è nato da madre ebrea è considerato ebreo senza dover dare altre prove della propria fede, si è spesso dedotto che solo chi è di madre ebrea può essere considerato appartenente a quel popolo e a quella religione. 
 
Ma tutto ciò non è vero. Le conversioni all’ebraismo sono possibili anche se non sono né sollecitate né favorite. Anticamente uno dei motivi della espulsione di ebrei da Roma fu il numero crescente di proseliti. Ciò non significa automaticamente che esistesse un proselitismo ebraico, ma che esisteva un certo numero, in alcuni momenti elevato, di convertiti all’ebraismo.
 
Nella sua marcia trionfale lungo le coste settentrionali dell’Africa in direzione dello stretto di Gibilterra, che avrebbe poi portato alla conquista della Spagna, le armate dell’Islam si imbatterono, e furono per un certo periodo fermate, nella tribù berbera dei Ǧerawa capeggiata da una Regina, la Kahina, soprannome arabo che significa ‘strega’; lei in realtà si chiamava Dihya. Secondo lo storico arabo Ibn Khaldūn, questa tribù, così forte militarmente e così ostinata nella resistenza, era di religione ebraica.
 
Una federazione di popolazioni turche insediatesi nelle steppe russe a nord del Caucaso, il regno dei Khazari, secondo alcuni storici si convertì al giudaismo tra VIII e IX secolo d.C., forse per ribadire la sua autonomia, scegliendo una sorta di ‘terza via’ tra i due colossi che lo pressavano da vicino: l’Islam da sud-est ed il Cristianesimo da nord-ovest.
Gli esempi potrebbero continuare, ma questi tre (i convertiti romani, i berberi ed i khazari) sono fra i più eclatanti.

E’ indubbio che la cultura ebraica affondi le sue radici nella storia più antica del Vicino Oriente quando ogni popolo e spesso ogni singola città aveva i suoi dèi, di solito una coppia di divinità supreme, maschio e femmina, con una più o meno vasta pletora di divinità minori. Gli dèi di un popolo rappresentavano l’identità nazionale di quel popolo e ne erano la bandiera. Così accadde per Jahvè, la cui pronuncia ci è ignota dal momento che la scrittura è sempre stata solo consonantica e la verbalizzazione da sempre riservata al Sommo Sacerdote in giorni particolari e solo all’interno del Sancta Sanctorum. Sappiamo da alcuni rari reperti storici che accanto a Jahvè era adorata una dèa paredra almeno fino al VI sec. a.C., quindi per almeno sei- settecento anni di storia ebraica. Il suo nome era Asherà o Anat a seconda dei documenti.

Poi arrivarono i Babilonesi che conquistarono il Regno di Giuda dopo che gli Assiri, circa un secolo prima, avevano conquistato il Regno di Israele. Rispettivamente le parti più meridionali e più settentrionali dell’antico regno di David e Salomone, massima espansione dei territori conquistati dal potere israelita, andato incontro ad una scissione non del tutto pacifica. Secondo la tradizione assiro-babilonese i popoli conquistati non venivano sterminati, ma se ne disperdeva l’élite culturale, religiosa, militare e professionale esiliandone i componenti in varie parti dell’impero e trasferendo al loro posto, nuclei di popolazioni straniere con le quali i ‘rimasti’ in patria si sarebbero in poco tempo amalgamati. Così i popoli “sparivano” e restavano nelle varie parti del territorio genti nuove, senza più identità nazionale e passato storico da rivendicare. Si tratta forse di uno dei più antichi processi di assimilazione etnica storicamente tramandati.
 
Dall’occupazione assira nacque il mito delle dieci tribù perdute di Israele, mito mai dimenticato nella storia ebraica e ciclicamente riportato alla memoria in occasione di supposti - e spesso comici - “ritrovamenti” di una di esse.
 
Come abbiamo visto però solo le élite venivano deportate ed i rimasti, in genere il popolino dell’epoca, il cui sangue si mescolava con genti di altra nascita, davano a loro volta origine a popolazioni considerate etnicamente “non pure”. I Samaritani sarebbero una di queste e ciò è motivo di antico ripudio da parte ebraica, ma anche del racconto del ‘buon samaritano’ dei Vangeli, la cui ideologia operava per un superamento dell’esclusivismo ebraico in virtù delle velleità universalistiche del cristianesimo. 
 
Durante l’occupazione babilonese - nel VII sec. a.C. - anche agli abitanti del Regno più meridionale, quello di Giuda, toccò in sorte l’esilio. Le élite furono deportate in Mesopotamia e i “rimasti” continuarono a zappare la terra e a pascolare le mandrie in attesa che il tempo scorresse e che qualcosa accadesse.
 
E qualcosa accadde in effetti. Ciro il grande, Re di Persia, abbattè il potere babilonese e conquistò molto rapidamente tutto il Vicino Oriente. I Persiani avevano un altro modo di mantenere il controllo sui territori conquistati e sui loro nuovi sudditi: pretendevano tributi e pacificazione e, in cambio, lasciavano loro libertà di culto e di amministrazione. Le élite ebraiche - la corte reale, i sacerdoti, i militari e così via - furono quindi lasciate libere di tornare in patria dove trovarono una popolazione che si era impossessata dei loro beni, delle loro terre, mandrie e case. Dopo settant’anni circa ritenevano, forse non del tutto a torto, di averne diritto. Lo scontro fra ‘rimasti’ e ‘ritornati’ era inevitabile. L’ideologia della purezza degli ex esiliati – a fronte dell’evidente promiscuità dei rimasti in patria – costituì l’arma dialettica forte che alla fine permise al popolo del ritorno di imporsi. Il Re che aveva preso le parti dei rimasti in forza di un’idea di suprema autorità su tutti i sudditi abitanti in quel territorio, un’idea piuttosto moderna di regalità, fu sconfitto dalla casta teocratica dei Sacerdoti che rivendicava il potere degli esiliati accompagnato, per dare maggior vigore a questa pretesa, dalla rivendicazione della purezza etnico-religiosa del loro partito.
 
Con la loro vittoria gli ebrei erano di nuovo "a casa" o almeno questa era la conclusione che ci è stata tramandata dello scontro, probabilmente una vera e propria guerra civile, che abbiamo raccontato. L’ideologia del “popolo eletto” aveva fatto la sua prima apparizione nella storia (ma qualcuno dice che in ebraico si usa am nivhar, popolo "scelto". E in effetti l'inglese traduce con "chosen people" non con "elected". Eletto deriva dal latino electus - da qui l'uso di "eletto" in tutte le lingue neolatine - che aveva sia il senso di scelto che di eletto, nominato. Poi ha preso decisamente il senso di "elezione" a posizione più alta, privilegiata).
 
Ma la storia non è così “razzista” come sembra. 

L’origine di questo pensiero è forse da porre negli anni precedenti al ritorno e probabilmente anche prima della travolgente discesa dei re persiani dagli altopiani iranici. Durante l’esilio, quando il popolo ebraico stava effettivamente - e definitivamente - uscendo dalla storia per l’annientamento culturale operato dai babilonesi (vicenda simile toccherà nel giro di poco tempo agli Etruschi per mano romana), dalla scuola dell’ultimo dei profeti ‘maggiori’, Ezechiele, fu affermato per la prima volta un concetto che ebbe conseguenze notevoli nei secoli successivi. Si disse che quel popolo aveva  un rapporto particolare con il suo Dio, un rapporto che ne faceva un popolo santo: “Siate santi perché io sono santo” (Levitico 19, 2). E’ la particolarità del popolo ebraico.
 
Ai nostri orecchi questa parola ha un suono che richiama una pia devozione, un che di mistico, di spiritualmente elevato; in ogni caso qualcosa di positivo. In realtà il termine ebraico qodesh significa semplicemente “separato” e può avere un senso sia positivo che negativo. Una prostituta è chiamata qedeshah (che deriva dalla stessa radice consonantica qds di qodesh) in ebraico, ed ha il senso di separata (dalla società).
 
Possiamo continuare a tradurlo con ‘santo’ e parlare anche dello Spirito Santo, ma il termine significa ‘separato’ e lo Spirito Santo è Spirito di Separazione.
 
I cristiani leggono questo termine parlando di ‘separazione dal male’, ma gli ebrei del tempo gli davano probabilmente un altro significato: stavano costruendo un’ideologia che sembra parlare di una affermazione di identità, proprio nel momento del massimo pericolo di sparizione; sparizione dell’identità nazionale, culturale e religiosa nel processo di amalgamazione imposto dall’esterno, dai dominatori babilonesi. 
Di fronte all’annientamento gli ebrei dell’esilio si proposero una separazione, un essere ‘altro’; affermarono la propria identità proclamando la loro separazione, come popolo, dagli altri popoli. Affermarono se stessi separandosi dall’altro, ma non per negazione dell’altro, cui si riconosceva il diritto alla salvezza alla fine dei tempi. Ci torneremo più avanti.
 
La liberazione per mano persiana interruppe un processo di annientamento che difficilmente avrebbe potuto essere fermato; gli ebrei sarebbero usciti dalla storia senza lasciare tracce. Forse solo qualche racconto della loro storia si sarebbe tramandato per via orale. Forse, per un po’. Oggi saremmo a chiederci chi mai fosse quel popolo di ysrir menzionato nell’elenco dei popoli sconfitti nella stele di Merenptah, il reperto archeologico più antico (XIII sec. a.C.) in cui, si pensa, ci sia un riferimento a Israele.
 
Con la liberazione ci fu il ritorno, lo scontro con il resto del popolo - ritenuto ormai “contaminato” dai rapporti interetnici che agli orecchi dei ritornati dovevano rieccheggiare il pericolo appena passato - la guerra civile, la presa del potere della teocrazia, l’imposizione nella cultura religiosa di un monoteismo assoluto e rigoroso. Dio era uno e il suo popolo era quello di Israele.

Troviamo una certa contraddizione tra le conversioni di cui abbiamo parlato e la separatezza dagli altri popoli su cui si fondava l’ideologia del popolo eletto, ma in realtà la conversione all’ebraismo è sempre stata permessa, per quanto con la prudenza imposta dalla necessità di preservare rigorosamente la tradizione dalla contaminazione da parte di altre culture, in primis da elementi di idolatria. 

All’ebraismo si può accedere, dunque, ma una volta diventati ebrei si è “altro” dagli altri. Scatta la separazione. Come sappiamo, tutto ciò ha valore puramente ipotetico. Gli studi statistici hanno ipotizzato che se tutti gli ebrei dei tempi di Cesare fossero rimasti tali, e con loro tutti i loro discendenti, oggi sarebbero tra i 250 ed i 300 milioni. Invece sono una dozzina di milioni in tutto il mondo. La maggior parte degli ebrei hanno semplicemente smesso di esserlo nel corso dei secoli (e in parte sono anche stati trucidati, ovviamente) mentre le conversioni all’ebraismo sono sempre state un numero irrisorio. Chi mai avrebbe voluto entrare a far parte di un popolo perennemente perseguitato e sostanzialmente perdente (almeno fino ad ora) ?

C’è un altro elemento che va tenuto presente a proposito del “popolo eletto”. Fin dal II sec. d.C., quando ancora il cristianesimo non era ancora quello trionfante della Chiesa di Roma, già con Origene, il giovane “padre” fanatico che si evirò per non cedere alla concupiscenza, si andò affermando all’interno della comunità cristiana l’idea che il vecchio Patto, quello tra Dio e gli ebrei non aveva più alcun valore, dopo la nascita, passione, morte e resurrezione del Messia. 


Il nuovo patto - quello con la Chiesa dei cristiani  - sostituiva il vecchio e la Chiesa affermò di essere il Verus Israël, il vero, quello preconizzato, ma non ancora compiuto, nell’Antico Testamento. Il nuovo popolo eletto, il popolo cristiano, il popolo di Santa Madre Chiesa ereditava e faceva proprio il senso di “popolo eletto”, travalicando i limiti etnici che questa definizione aveva quando ancora definiva esclusivamente gli ebrei.
 
Nella visione universalistica della cristianità non c’era spazio per la ristrettezza della visione giudaica. Il magistero della Chiesa, la cui impronta è già definita dai viaggi apostolici di Paolo, abbatte gli steccati nazionali, va oltre i popoli per ri-fondare, su altre basi, quella complessa e vasta dominazione sovranazionale che l’Impero dei Cesari aveva costruito e mantenuto per secoli, ma che poi aveva perduto sconfitto proprio dalle “nazioni”: gli Unni, i Goti, i Longobardi; infine virtualmente sostituito dai Franchi.
 
L’universalismo cristiano si fondava dottrinalmente sull’idea che - Extra Ecclesiam nulla salus - fuori dalla Chiesa, dalla comunità cristiana, non era ipotizzabile la salvezza. Solo l’anima dell’uomo battezzato permetteva di essere - contemporaneamente - salvo e iscritto a Santa Madre Chiesa. Due termini che, insieme, definivano l’essere umano fatto a immagine di Dio e di distinguerlo da chi, macchiato dalla colpa di origine, non poteva nemmeno essere considerato umano.
Il magistero della Chiesa si caratterizzava (e si caratterizza tuttora) per essere universale, rivolto a tutta l’umanità, le cui anime sono la preoccupazione prima degli intenti missionari. Al punto da non fermarsi di fronte all’ipotesi di conversioni forzate di intere popolazioni o alla sottrazione di bambini ai rispettivi genitori pur di salvare loro l’anima con il rito battesimale (ultimo, e scandaloso, fu il caso Mortara).
 
La conversione indotta di ebrei provocò la nascita di quel fenomeno dei conversos nella Spagna del Quattrocento, cui seguì quello chiamato marranesimo (da ‘marrano’ cioè maiale) con cui si indicavano gli ebrei convertiti, ma sospettati (spesso a ragione) di mantenere nell’intimità fede e riti della loro religione d’origine. Il sospetto dell’ipocrisia dei conversos marciava di pari passo con l’idea che la società spagnola potesse essere contaminata dai falsi cristiani e si iniziò a pretendere una catena genealogica di “purezza del sangue” per chi ambisse a incarichi pubblici. La limpieza de sangre trasformò l’avversione per chi non era fedele alla religione cristiana in avversione per chi non fosse di sangue puro, di razza pura. Nasce indubbiamente in questo contesto l’antisemitismo razziale europeo che troverà la sua massima espressione nell’ideologia nazista.
 
In conclusione si può ipotizzare che l’esclusivismo religioso ed etnico del popolo ebraico si accompagna ad un universalismo sostanziale (chiunque, non idolatra, è pensato degno di salvezza alla fine dei tempi, purché sia un giusto (1); per la salvezza non è richiesta una conversione all’ebraismo). Al contrario l’universalismo cristiano rivela una reale esclusività di sostanza racchiusa nella formula dell’Extra Ecclesiam nulla salus.
 
L’ebreo dice 'io sono io e seguo la mia strada, voi fate pure quello che volete purché siate giusti' (cioè umani). Il cristiano al contrario sosteneva 'io sono io e voi dovete diventare come me, se volete salvarvi'; poi modificata in 'io sono io e voi non dovete esistere', nel passaggio dalla conversione, con le buone o le cattive, alla limpieza de sangre spagnola. Solo in tempi recentissimi si ipotizza una qualche 'grazia' divina anche per il non battezzato, sempreché non rifiuti consapevolmente e volontariamente l'idea che quella grazia è gratuitamente concessa dal Cristo Gesù.

In conclusione "Tutto il mondo, per i cristiani, dovrebbe diventare cristiano, ma non tutto il mondo, per gli ebrei, dovrebbe diventare ebraico..." (2).
 
Dall’essere (ebraico) - capace di lasciare all’altro da sé la libertà di essere altro, riconoscendoli "dignità umana" - all’essere (cristiano) che pretende l’identificazione più completa, ma capace anche - in presenza della pervicace resistenza dell'altro - di raggiungere momenti di quel massimo, tragico delirio, in cui non ha esitato a ricorrere anche allo sterminio, all'annientamento fisico del diverso da sé, cui si negava totalmente qualsiasi "dignità umana".
 
Alla fine, chi è il razzista fra i due ? 


E, infine, riflettiamo sul significato che il termine "popolo eletto" ha sempre avuto per l'ebraismo: 
Popolo 'eletto' assume allora il significato di veicolo scelto dal Signore per un suo piano imperscrutabile che rende sacra la storia dell’uomo. Non è pretesa di poco conto, d’accordo. Va però subito notato che tale specificità non configura una vera missione d’ordine superiore, non contiene quindi alcuna connotazione trionfalistica ed espansionistica ma al contrario, e tutta la storia dell’ebraismo lo conferma, è sempre stata interpretata e vissuta in chiave difensiva, di dovere, responsabilità, quindi soprattutto di sofferenza. Essere il popolo eletto è sempre stato sentito dagli ebrei come un peso, un carico di doveri, una prova della quale non si può mai cessare di dimostrarsi degni. Lungi dal suscitare la benché minima volontà di potenza o aureola di grandiosità, tale fardello ha semmai esasperato il complesso dell’autodifesa, ingenerando l’incubo che il tradimento del Patto e quindi la perdita della specificità possa ingenerare la morte come popolo(3).


Note


1) "Secondo il pensiero rabbinico tutti gli uomini sono tenuti all'osservanza di sette comandi, definiti i "sette precetti noachici" perché vengono ricondotti all'alleanza primordiale che Dio stipulò con Noè (cfr. Genesi 9). Essi consistono nei sei divieti di bestemmiare, di seguire l'idolatria, di abbandonarsi alla lussuria, di versare sangue, di rubare e di mangiare un membro di un animale ancora vivo, e nel comandamento positivo di amministrare la giustizia (cfr. bSanhedrin 56a). Chiunque osservi tali precetti viene comunemente definito un "giusto" fra le nazioni", D. Kimchi, Commento ai Salmi, p. 34, nota 111. 
Nel dettaglio: "I Giusti tra tutte le nazioni avranno una parte nel Mondo Avvenire", Talmud, Sanhedrin 105a. 
2) "Eletti e reietti. Il paradosso ebraico", S. Quinzio, Corriere della Sera, 28.08.1995. Cfr. http://archiviostorico.corriere.it/1995/agosto/28/Eletti_reietti_paradosso_ebraico_co_0_9508286447.shtml
3) M. Jacobucci, "I nemici del dialogo: regioni e perversioni dell'intolleranza", p.114.
 

Bibliografia

Kimchi D. (a cura di L. Cattani), Commento ai Salmi, Città Nuova, Roma 2001.
Jacobucci M., I nemici del dialogo: regioni e perversioni dell'intolleranza, Armando Ed., Roma 2005.
Levi Della Torre S., Essere fuori luogo. Il dilemma ebraico tra diaspora e ritorno, Donzelli, Roma 1995. 
Sand S., L'invenzione del popolo ebraico, Rizzoli, Milano 2010. 
Schäfer P., Giudeofobia, Carocci, Roma 2010.
Simon M., Verus Israel, Etude sur les relations entre Chrétiens et Juifs dans l'Empire romain, De Boccard, Paris, 1964. 
Yerushalmi Y.H., Assimilazione e antisemitismo razziale: i modelli iberico e tedesco, Giuntina, Firenze 2010.

Per un approfondimento del senso religioso che nell'ebraismo si dà al concetto di 'scelta' 
cfr. qui:
http://www.ritornoallatorah.it/public/index.php?option=com_content&view=article&id=72:popoloeletto&catid=46:credenze&Itemid=7 Immagini tratte dal sito http://www.fisicamente.net/SCI_FED/index-1842.htm   e http://www.webalice.it/r_ordano/DAL%20SILENZIO%20DEL%20TEMPO%20E%20DELLA%20STORIA.htm



L'editto di Granada di espulsione degli ebrei dalla Spagna




 
Ebrei al rogo. Silografia dal Chronicarum liber di Hartman Schedel (Norimberga, 1443).

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