25/02/16

Ponzio Pilato e il segreto dei due Gesù

Da qualche tempo Ponzio Pilato è tornato di moda.


Più esattamente da quando Aldo Schiavone ha scritto un libro - Ponzio Pilato. Un enigma tra storia e memoria - recensito poi da vari articoli (da Carlo Franco sul Manifesto a Ezio Mauro su Repubblica).
La “storia” è nota (ma le virgolette sono obbligatorie dal momento che non esiste alcuna prova che sia mai esistito il Gesù protagonista della vicenda); i Vangeli raccontano che Gesù detto il Cristo (cioè il Messia), imprigionato su istigazione dei giudei maggiorenti del Tempio, fu portato al cospetto del procuratore romano della Giudea, Ponzio Pilato (una figura, questa sì, storica) per essere processato.
Nel serrato dibattito fra i due emerge il fatto scandaloso: “Il mio regno non è di questo mondo” dice Gesù, introducendo un salto ontologico, inaccettabile per Roma così come per il giudaismo, alle cui orecchie suonava come una insopportabile blasfemia.

Il funzionario romano si arrese e, come si sa, se ne lavò le mani diventando una figura emblematica della lacerazione umana tra volere e potere. Portò Gesù detto il Cristo al cospetto del popolo e presentò la sua alternativa: uno sconosciuto dal nome di Barabba. “Chi volete che viva?”, chiese. E, a sorpresa, la folla scelse Barabba, consegnando il Cristo al carnefice.

Perché, "a sorpresa", la folla scelse Barabba?
È lecito farsi qualche domanda dal momento «che la condanna di Gesù era “necessaria” al compimento del piano messianico - aggiunge Carlo Franco - tra l’accusato che non si difese e il magistrato che non lo voleva mettere a morte si strinse una sorta di “patto”»; un accordo silente che trasmette »un’interpretazione più filosofica che storica».
Questa sembra essere la chiave di lettura della vicenda più famosa della storia occidentale; famosa tanto quanto mal compresa.

Quello dei Vangeli infatti non è altro che un “racconto a fumetti” (come altro definire gli avvenimenti descritti, posto che di storico non c’è nulla di dimostrabile?) necessario per veicolare nelle menti poco raffinate del popolino quelle sottilissime “verità” filosofiche necessarie per fondare una nuova antropologia, su cui costruire addirittura una "religione" universale.
Il segreto dell’episodio - ce lo racconta la patristica - sta nei nomi dei protagonisti. Non quello di Pilato, ma di Gesù (Yeshu o Yeshua) il Cristo e di Barabba. Le due figure di fantasia (o di filosofia).

I nomi.
In tutta la narrazione evangelica Gesù Cristo era definito (lui si definiva così secondo gli estensori delle scritture) “figlio dell’uomo” (Bar enàsh in aramaico, la lingua parlata in Palestina in quei tempi); un semitismo per definire l’essere umano in carne e ossa.
Ma è il nome del secondo che rivela tutta la portata filosofica latente: «da Origene apprendiamo un ulteriore dettaglio interessante: in molti manoscritti dei Vangeli fino al III secolo l'uomo in questione si chiamava Gesù Barabbas», scriveva Papa Ratzinger nel suo Gesù di Nazaret.
La patristica ci racconta dunque che anche Barabba si chiamava Gesù (Yeshu o Yeshua), per quanto scandaloso possa apparire alle orecchie di un credente (e forse per questo poi il nome fu cancellato dalla dogmatica). Per l’esattezza si chiamava Gesù il Barabba: Yeshua Bar-abbâ che, in aramaico, significa Gesù "figlio del Padre", ossia di Dio: il figlio dello spirito assoluto della teologia.
Abbiamo quindi un ben diverso significato (reale) dietro al racconto (fittizio) della scelta che Ponzio Pilato offrì al popolo ebraico. L’opzione non fu tra Gesù e Barabba, l'inoffensivo predicatore o il pericoloso sovversivo, ma tra il "figlio dell’uomo", l’uomo carnale e il "figlio del padre", l’uomo spirituale.
E il popolo scelse, ovviamente, ciò che era “necessario” al compimento del piano messianico: l’uomo carnale doveva morire perché l’uomo spirituale potesse vivere.

Così fu, secondo i Vangeli: morte (dell'uomo carnale) e resurrezione (dell'uomo spirituale). In quel momento, scrive Ezio Mauro, "iniziò la modernità". Ed è una modernità che è arrivata sino a noi anche se laicizzata da un certo momento storico in poi dai filosofi, senza che ne fosse scalfito in alcun modo l'assunto di fondo.

La vera architettura concettuale del cristianesimo si incentra dunque sulla morte della carnalità, sede del male e del peccato; grazie alla negazione della carne l’essere umano si “redime” diventando puro spirito. Parole di Paolo di Tarso, prima ancora che degli Evangelisti.

C’è da chiedersi perché poi le passioni, il sesso, il corpo (e quindi la donna, demoniaca attrazione verso la perdizione dei sensi e della carne) sono stati aborriti dal cristianesimo a meno che non fossero sublimati in qualche modo?
Tutto ciò era inaccettabile per il giudaismo; una storica, Stefanie Knauss, ha sottolineato come «per “trovare” il corpo nell’ebraismo non ci vuole molto: a buona ragione gli ebrei e le ebree sono stati chiamati “il popolo del corpo”».

Con queste premesse non è strano che le due culture, per quanto dialoganti (superficialmente e a singhiozzo), siano sempre state inconciliabili. O meglio, quella che viveva di solo spirito trovava proprio insopportabile l'altra, quella "del corpo": accusata per secoli dall'invenzione di avere "ucciso Dio". Una farsa che ha provocato fiumi di sangue, fino alle conseguenze più drammatiche.

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